20
Mar

Confuso, sconclusionato, contraddittorio.

La pandemia, tuttora in atto, evidenzia sia una fondamentale incapacità strategica in politica che un auto incensarsi continuo, tipico di una élite politica, ed entrambe le cose mettono in pericolo l’ordine pubblico.

Le crisi sono i momenti di maggior attenzione verso l’esecutivo e di colpo tutte le aspettative si rivolgono verso lo Stato. La grande maggioranza dei cittadini è disposta  a concedergli poteri aggiuntivi e di più competenza e nei sondaggi il consenso dei partiti politici che sostengono il governo schizza alle stelle. La competenza, però, ha una duplice significato; da un lato sta ad indicare diritto di intervento e formale competenza, dall’altro reali capacità e competenze in un dato campo. Da un punto di vista formale la competenza è un riconoscimento, un premio anticipato che alla luce dei risultati evidenzia molto rapidamente quella che è l’incompetenza. Se la strategia messa in campo non soddisfa le aspettative, infatti, crolla di nuovo rapidamente il consenso. Questo è quanto registriamo, viviamo al momento.

 In una situazione del genere il constatare ovunque il fallimento dello Stato può trasformarsi rapidamente in una crisi dell’ordine democratico. Soprattutto quando (parte) della classe politica non pensa a nient’altro che  usare la crisi per auto arricchimento , auto santificazione senza inibizioni. Quando al fantasticare, al nulla, all’inazione e alla incapacità si aggiunge la mancanza di scrupoli, questo porta a qualcosa di più della semplice delusione delle aspettative. Allora si diffonde nella società una miscela di rassegnata avversione e cinica distanza.

 Se si vuole veramente che la situazione non precipiti, se si vuole evitare la rivolta, la guerra civile, bisogna cambiare strategia. In pratica è necessario qualcosa di più che cascate di promesse nate già a seguito della prima ondata e targate dal motto „d’ora in avanti andrà tutto bene“. È necessaria, piuttosto, una analisi precisa delle cause che hanno portato al fallimento. Ma soprattutto si tratta di trarre conseguenze pratiche dell’analisi perché, in fondo, non è che ci sia stato mancanza di cose dette, annunciate o scritte, ma è palese che ci sia stata mancanza di conseguenze.

 La formazione del governo Draghi ha attivato ha originato, ha attivato  onde che si stanno impattando sui partiti. Le prime onde hanno colpito i partiti che avevano sostenuto il governo precedente, ma altre seguiranno sicuramente in direzione dei partiti della opposizione nel governo Conte-bis. Ma invece di affrontare la ragioni di tali impatti, i leader politici – e i media di parte  e non solo- evidentemente sono più interessati all’interrogativo :

„ Ma il governo Draghi è di destra o di sinistra“?

Ogni analisi inizia con uno sguardo retrospettivo e confronto. L’Italia ha resistito abbastanza bene alla prima ondata della pandemia, ma dal „relativo“ successo sono state tratte conclusioni sbagliate: invece di analizzare e constatare i punti deboli e prepararsi all’ondata successiva, si sono dati pacche sulle spalle e scambiati valanghe di complimenti  a mò di „ma come siamo stati bravi“ e non hanno fatto più nulla. E questo è stato dimostrato  molto chiaramente con il tema scuola. I progressi compiuti nella digitalizzazione sono rimasti minimi e alla scolarizzazione in presenza alternata l’organizzazione è preparata in modo del tutto inadeguato.

 Quando si placò la prima ondata e ci fu un sospiro di sollievo, la decisione fu „e allora fuori tutti“. Nella seconda ondata è risorta una cultura del piagnucolio: dalle organizzazioni degli insegnanti agli psicologi giovanili tutti a denunciare che una intera generazione avrebbe gravi deficit educativi, i socialmente svantaggiati sarebbero maggiormente colpiti. Vero, ma sarebbe stato piacevole registrare la stessa enfasi anche prima della DAD, quando le problematiche sociali e culturali di certe esce della popolazione, come ora, rappresentano Il disastro della scuola. Le manovre anti-pandemiche del settore scuola, come l’andirivieni tra chiusura  e riapertura può senza meno essere visto come un paradigma di mancanza di orientamento nell’affrontare la pandemia. 

Lo Stato ha evidentemente dimenticato cosa sia la prevenzione e si è invece concentrato sull’assistenza post pandemia e sui pagamenti di compensazione. L’emergenza è stata brutale, ma dopo un anno, a queste manovre sarebbero dovute seguire quelle programmatiche di gestione della pandemia e tracciare strategie per il futuro post pandemico.

Il governo Draghi è la risposta alla difficoltà culturale, capacità decisionale  delle rappresentanze politiche emerse dalle ultime elezioni, a fare i conti con la complessità originata dalla pandemia. È un governo di cose da fare e non di collocazione politica a cui è assegnato  un compito piuttosto chiaro: ricostruire – nel contesto del programma Next Generation EU – l’infrastruttura economica, sociale e istituzionale che dovrà collegare l’Italia alla Ue. 

Per molti la crisi originata dalla pandemia ha riesumato – e visibilmente rafforzato – la distinzione storica tra sinistra e destra.Entrambe posizioni nei fatti, però, alquanto confuse.

Per quelli di sinistra la pandemia ha evidenziato la riacquisita centralità dello Stato dove solo lo Stato poteva intervenire a sostegno del reddito dei gruppi colpiti dalla crisi, garantire la salute pubblica, o ancora, disciplinare i comportamenti della collettività. Di conseguenza, quindi, occorre rilanciare il ruolo economico dello stato, riportandolo nella gestione delle stesse imprese che erano state privatizzate negli anni ´90 del secolo scorso. Però con questo modus operandi non si tratta solamente di neutralizzare le sue negative esternalità, ma di politicizzare il mercato. L’ennesima crisi interna, però, ha chiaramente portato alla luce del sole il distacco tipico tra il pensiero della società progressista di sinistra e l’interpretazione della sinistra data dai partiti che in parlamento ne fanno bandiera, e che l’idea di politicizzazione a 360 ° non è la soluzione auspicabile. 

 Per quelli di destra, invece, la pandemia ha dimostrato esattamente il contrario, ovvero che lo Stato con il suo intervento rischia di soffocare il mercato.  Ne consegue che lo Stato deve deregolamentare e non decidere se e quando i cittadini possono o potranno andare o meno al ristorante. Gli aiuti finanziari provenienti da Bruxelles devono servire a ridurre le tasse e liberare il mercato dall’invasione statale. Questo è chiaramente un dibattito ideologico, per quanto possibile evidenziare in una destra capace di mantenere al suo interno elementi contradditosi in grado di supportare con una mano e detrarre con l’altra. tutte posizioni chiaramente ideologiche che non tengono conto dell’esperienza e ancor meno del contesto.

 L’esperienza ha dimostrato che lo Stato non è solo l’espressione dell’interesse pubblico, ma anche un sistema di corporazioni e di rendite. Inoltre ha dimostrato che il mercato non è solo produttore di ricchezza sociale, ma  anche un sistema di particolarismi incapaci di autoregolazione. 

Ma soprattutto questo dibattito ideologico non considera il cambiamento di contesto in cui oggi si sviluppa il rapporto tra Stato e mercato. I processi di globalizzazione, e in particolare  il processo di  integrazione europeo, hanno de-strutturato e ristrutturato sia lo Stato che il mercato. In Europa non esiste più lo Stato nazionale del secolo scorso ma sia trasformato nello Stato-membro dell’Ue. Lo Stato inteso come organismo funzionale unitario ha lasciato il posto allo Stato delle politiche. Ovvero, lo Stato gestisce alcune politiche unitamente con altri Stati e alle autorità europee e altre politiche le gestisce da solo.

 Per esempio prima della pandemia la politica sanitaria era di competenza nazionale. La pandemia ha disarticolato quella competenza, spingendo ad una coordinazione degli Stati europei per giungere a decisioni e risorse comuni da implementare poi secondo le specificità  di ogni singolo Stato.

 E così, proprio per garantire la salute dei propri cittadini, l’azione statale si è dovuta svolgere a più livelli, e cioè sovranazionale, nazionale e regionale. Il governo Draghi, insomma, non sta li a rappresentare la fine della politica nostrana, ma si la fine della politica italiana come l’abbiamo conosciuta finora.

 L’Italia ha bisogno che si presentino, che si affermino leadership politiche in grado di capire la trasformazione strutturale  intervenuta nei rapporti tra Stato e mercato per via dell’integrazione sovranazionale. La sinistra e la destra , per ricostruirsi come forze di governo, dovranno proporre idee e programmi che siano in gradi di affrontare le conseguenze di quella trasformazione strutturale. La sinistra riformatrice, europeista potrà accentuare il carattere sovranazionale del processo di integrazione, la destra quello nazionale.

 Entrambe, però, dovranno partire dalla realtà di quest’ultimo. Restiamo in attesa di promuovere leaders che abbiano l’intelletto per capirlo.

Pietro Casula

Movimento per la Sardegna – Sardi nel mondo

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