10
Ott

Fare, non aspettare!

Quello che ci porterà il prossimo futuro si profila chiaramente già oggi e, per la cronaca, nulla di cui gioire. Ma chi si preoccupa di questo? Nelle discussioni politiche, non appena qualcuno vuole creare l’idea, un effetto particolarmente lungimirante, usa tipicamente la frase: 

„..se si guarda indietro ad oggi tra cent’anni, si dirà che cento anni fa…“. 

Normalmente la frase termina così da confermare l’intuito di chi l’ha detta.

In effetti da diversi anni – forse dall’inizio del millennio – viviamo in una fase di sconvolgimento generale. Ora più che mai, in un clima di costante campagna elettorale, si parla del prossimo governo che dovrà „ impostare la rotta per il futuro“. Soprattutto le allarmanti emissioni di CO2 ci costringeranno nel breve termine a cambiare i nostri stili di vita se vogliamo sopravvivere su questo pianeta.

Non é certo una novità, e pur considerando l’importanza dell’argomento, questo gioca un ruolo sorprendentemente secondario in campagna elettorale.

Eppure l’estate ci ha dimostrato con quale potenza la terra reagisce e reagirà alla massiccia interferenza umana nei suoi cicli. E non abbiamo alcuna possibilità di opporci. Ma non è solo il clima; nei prossimi anni un’intera serie di sviluppi globali ci occuperà intensamente. 

Ciononostante il „benaltrismo italico“ sposta l’attenzione dove si concentra il maggior bacino elettorale e mai sui problemi e priorità che vede i più pericolosi e stringenti temi in cima alla classifica. 

È preoccupante quanto poco sembriamo esserne consapevoli. 

Soprattutto perché niente di tutto questo arriva così all’improvviso. Dopo tutto, il recente passato ha dimostrato quanto sia prevedibile il futuro.

Da decenni gli scienziati avevano avvertito di una imminente pandemia, ipotizzando anche che questa potesse essere causabile in particolare da una variante del virus Sars. Sapevano che ad un certo punto si sarebbe trasmessa dagli animali agli esseri umani. Sapevamo che si sarebbe diffuso rapidamente nel mondo altamente interconnesso in cui viviamo. Poi é arrivato il Coronavirus e guarda caso è una variante Sars che nel giro di poche settimane si é diffusa su tutte le aree abitate del pianeta. 

Nessuno avrebbe dovuto essere sorpreso per davvero, eppure la sorpresa è stata generale.

Un altro esempio: da quando lo smartphone è diventato il nostro perenne accompagnatore, gli esperti invitano, esortano a non fidarsi troppo del cell perchè i dati non sono al sicuro. 

Parole di Michal Kosinski, docente di ricerca dati a Stanford, che sta indagando su cosa i raccoglitori di big data come Amazon, Apple, Google e Facebook, nonostante i loro tentativi di rispettare la privacy, già oggi sanno su di noi. Le sue scoperte sono allarmanti, e quando recentemente è stato reso noto che i servizi segreti con l’ausilio del software Pegasus sono riusciti a infiltrarsi nei cellulari di importanti politici e di attivisti, probabilmente avrà sorriso compiaciuto. 

Tutti sapevano, nessuno era informato. La storia si ripete.

Negli ultimi 25-30 anni potremmo aver dimenticato come plasmare, programmare attivamente il futuro. I governi che si sono succeduti hanno regnato reagendo al momento storico e, perlomeno in Italia, non hanno superato la prova del tempo, cadendo ancor prima di riuscire a programmare un qualcosa a lungo termine. Troppo spesso ciò che doveva essere un progetto ben strutturato si é rivelato, con il senno di poi, inutile, impraticabile.

La discussione su programmi e progetti , la ricerca di accordi e compromessi è l’essenza della democrazia. 

Quello che ci offre la politica oggi é solo show, schermaglie e battibecchi, slogan, tifo da stadio. Prevalgono le audience quotidiane, uscite estrose, bizzarre che poco o niente hanno a che fare con la politica costruttiva. I dati dell’astensionismo dovrebbero far capire qualcosa. 

Il mercato della politica è sempre più a circolo chiuso, l’elettorato é considerato un imbecille che deve solo mettere una croce sulla casella giusta e arrivederci al prossimo giro, un ciclo temporale ovviamente sempre più stretto.

Un distacco netto, uno scollamento tra Paese reale e Paese legale dovuto fondamentalmente alla crisi dei partiti popolari. 

Già nel lontano 1950 Benedetto Croce scriveva che i partiti erano esigenza elementare, l’intermedio necessario tra società e Stato. Erano i partiti che dovevano fare in modo che dalle  elezioni si formasse il miglior Parlamento possibile. 

Già, allora, i partiti. Oggi, ormai, li vedi attivi e vivi solo al tempo delle elezioni. E per attività e vitalità intendo il mero cercare voti e fare proclami. Al declino della membership corrisponde, appunto, l’assenza di una presenza continua di partito, poca coesione e pochissima democrazia interna e tante correnti senza nessun filo conduttore  partitico.

Perduto il legame con la società, i partiti conservano solo il monopolio dei rapporti con lo Stato. Per la Costituzione dovevano essere lo strumento della democrazia, ma essi stessi non sono democratici. Dovrebbero essere formatori, interpreti della domanda sociale, ascoltare e risolvere gli interessi degli elettori, proporre programmi a fronte di un interesse comune. Invece non riescono neanche a darsi un’identità facilmente riconoscibile. Ma parlano, parlano molto per dire poco o niente. 

Dovrebbero progettare il futuro, ma sono prigionieri dei cicli brevi, della politica del immediato, condizionata da una deludente incostanza dove contano più gli accordi che le urgenze reali da affrontare.

Sempre all’inseguimento l’uno dell’altro, contano la presenza mediatica e la rappresentazione più che il progetto. I leader non fanno la „gavetta“ come una volta, nascono professionisti della politica.

Comprensibile, quindi, che questi politici abbiano bisogno di essere onnipresenti, di apparire, esternare , sempre cercando di differenziarsi seppure in assenza di programmi o ideologie. 

Essere presenti sul territorio ha perso il significato di intermediazione tra cittadini e amministratori, è diventato puro spettacolo che vede politici di ogni livello a destra, sinistra e centro presentarsi in tutte le piazze utili con discorsi vuoti e ciclostilati, parlando ma non ascoltando, tra selfie e strette di mani come star in continua ascesa e non al servizio dei cittadini e dello Stato, ma da questi serviti e riveriti.

Una situazione come questa che viviamo attualmente, caratterizzata da moltissimi sintomi di indefinibile inquietudine, di turbamento, di sconforto, di scontento, insomma  di malessere democratico, il paradosso è che nella società sono in continuo aumento le scuole di politica. 

Segno che il bisogno di buona politica è sentito profondamente.

Insomma , pare prevalere l’idea che se la politica è povera non per questo bisogna rifuggire da essa e cavalcare l’antipolitica diventata anch’essa una ben sfruttata politica.

Penso, piuttosto, che sia necessario rimediare alla povertà della selezione della classe politica e della sua cultura, oltre che stabilire nuovi rapporti con la società.

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